Racconti – Cento anni

Cento anni.
Un secolo.
Quando muore una persona che ha vissuto per così tanti anni, ci si dá pace più facilmente. Ai funerali quasi nessuno piange. Forse lo fanno solo i figli anziani sopravvissuti a loro volta alle loro traversie di vita.
Qualcuno si soffia il naso, qualche altro azzarda occhi lucidi, ma nelle parole sussurrate di tutti c’é sempre la consolazione che chi non c’é più, ha vissuto moltissimo e la sua morte è nella logica delle cose.
E questa logica consola.
Proprio ieri ero al funerale della mia zia centenaria.
Capita che nelle famiglia ci sa un “primo” in qualcosa; il primo figlio laureato, la prima figlia suora, il primo cugino onorevole, il primo nipote americano…
Bene. Io ho avuto la mia prima zia centenaria, brillante, come sempre, anche il giorno del suo centesimo compleanno e poi ammalata e costretta a non vedere la sua centounesima candelina.
E così ieri ero al suo funerale.
Noi, le ragazze di una volta, figlie e nipoti, ormai signore anziane, ci siamo ritrovate per il rito di commiato.
Le figlie piangevano piano, le nipoti erano commosse.
Ma cento anni, si sa, sono cento.
E così diventiamo timorosi di esprimere sentimenti…
Con tutti i bambini e i giovani che muoiono, con tutte le madri e i padri che muoiono, come si fa a piangere per un’anziana zia che ha vissuto moltissimo, molto più di tanti altri che lasciano le loro famiglie troppo presto?
A questo pensavo perfino io fino a ieri, fino a quando sono tornata a casa, fino a quando mi sono seduta davanti alla mia tazza di té pomeridiano e nel silenzio della casa ho cominciato a ripensare a quanto la mia zietta ha inciso nella mia vita.
Lei … che mi ha regalato il mio primo giradischi personale e il mio primo 45 giri di Elvis, quel Love me tender che è ancora lì nel cassetto in cui conservo parecchi ricordi musicali suonati e risuonati in quei pomeriggi di sabato della mia adolescenza in cui, sconsolata, mi annoiavo a morte pensando al bel Maurizio, il ragazzino che mi aveva strappato il cuore e che era innamorato di tutte le altre ragazzine che non ero io…
Lei … che ballava il woogie, il valzer e il tango con uguale energia e abilità e che amava l’arte, la pittura, le cose belle, l’armonia dei colori e delle forme…
Lei … che lavorava moltissimo ed era quotatissima nella sua professione, quel lavoro di commercialista che le dava da vivere, che esercitava con meticolosa precisione e che faceva da contraltare alle sue notti insonni in cui sferruzzava e ricamava. Grazie a lei ho amato il lavoro e la manualità e ancora adesso nei miei momenti liberi amo cucire e lavorare a maglia. Grazie a lei ho imparato ad apprezzare il silenzio della casa di notte, quando, libera dai miei altri impegni familiari, potevo e posso fare ciò che volevo e voglio, senza intralcio alcuno.
Lei… che decorava con passione gli alberi di Natale e che aveva sempre un regalo per tutti. Lei…che aveva un profumo unico nei suoi abbracci, nei vestiti, in tutto ciò che la circondava e che mi ha regalato il mio primo portacipria con il coperchio di smalto blu che per anni ha viaggiato con me nelle mie borse dovunque andassi.
E quegli anni avventurosi di guerra e di guerra civile e quel suo racconto di fuga per mettersi in salvo con la sua piccolina e quell’anello venduto, senza pensare due volte, alla borsa nera in cambio di una scatola di latte condensato e la sua dignità di madre e di donna, difesa e testimoniata per tutta la vita con splendida integrità morale e personale…
E il suo gusto nel vestire, la sua figura slanciata ed elegante, il suo passo lungo e veloce, il suo sorriso, la sua onestà…
Davanti alla mia tazza di té di ieri pomeriggio, ho ritrovato molto ció che sono e che ho cercato di diventare grazie a lei, al suo esempio, alla sua dedizione a ideali e principi vissuti e sentiti.
Cento anni e sette mesi senza venire mai meno a se stessa.
Forse questo è il senso di una bella vita lunga, del groppo in gola che mi sento e del sorriso che attraversa la mia mente quando penso a lei.

 

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